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Fotografia di Loreno Molaschi

Chi è Enrico? Qual è stato il percorso che ti ha portato nel mondo della consulenza e formazione manageriale?

Sulla prima parte della domanda mi permetto di glissare elegantemente, troppo complicata. In realtà non è facile dare una risposta neanche alla seconda. Quello che siamo oggi e ciò che facciamo sono il risultato di una molteplicità di scelte, di decisioni e, perché no, di casualità delle quali non è sempre scontato trovare un filo conduttore. Nel mio caso, sono approdato alla laurea in Ingegneria Gestionale con le idee non del tutto chiare su ciò che sarei diventato. Sapevo solo di essere molto ambizioso, ma anche inesperto e non pienamente consapevole delle mie reali capacità. Guardavo con ammirazione al mondo della consulenza, perché la consideravo lo sbocco più prestigioso del mio corso di studi. Vedevo autorevolezza, competenza, esperienze interessanti e, in più, bei vestiti e auto di lusso. Nella realtà, dopo qualche mese di colloqui, accettai un lavoro come impiegato tecnico in una piccola azienda vicino casa. Scelsi la soluzione apparentemente più comoda. Mi sbagliai. Furono 6 anni intensi, nel corso dei quali fui continuamente messo alla prova. Avevo un ruolo tecnico-commerciale e mi si richiedevano competenze tecniche, ma anche economico-finanziarie. Lavoravamo per scadenze, spesso molto ravvicinate l’una all’altra, giravo l’Italia, ci sono stati periodi in cui prendevo 3 aerei a settimana. Fu un periodo molto duro, ma che mi permise di mettermi alla prova superando sfide per me impegnative e di maturare tantissimo. Ad un certo punto capii però che lavorare come dipendente non era la mia strada. Mi vedevo costretto a lavorare con metodologie altrui, secondo priorità dettate da altri e, soprattutto, venivo valutato su competenze che, secondo me, non corrispondevano ai miei reali punti di forza. In altre parole, nonostante le cose andassero bene e la mia carriera fosse in ascesa, sentivo di avere un potenziale inespresso. Consegnai le dimissioni e mi buttai a capofitto in un’avventura a carattere familiare. Con mio padre architetto e mio fratello ingegnere avviammo una piccola società di consulenza. Operavamo nel settore edile, io mi occupavo di project management. Non andò bene. Proprio nel momento di maggior delusione conobbi Miriam (titolare di Simplify). Fu lei a intravedere in me quel potenziale che io sapevo di avere ma che non ero ancora riuscito a esprimere compiutamente. Impiegammo qualche mese a individuare un progetto su cui collaborare, ma in quel frangente capii quale fosse una caratteristica (il famoso filo conduttore) che accomunava tutte le mie esperienze di studio e lavorative. Io ero (e sono) ossessionato dal capire come funzionano le cose. Questo fa di me una persona curiosa, attenta ai dettagli, ma in grado di alzare la testa e di comprendere il tutto. Da piccoli progetti siamo passati a collaborazioni sempre più ampie, su diversi temi. Oggi ho quasi totalmente indirizzato la mia sete di comprensione verso il mondo delle aziende, in particolare verso lo studio dell’organizzazione aziendale e del controllo di gestione. Sono felice di aver assistito (e in parte contribuito) alla nascita di Simplify, perché una delle sfide che mi ero posto era proprio quella di costruire qualcosa di mio o che almeno mi consentisse di esprimermi come meglio credo. Sono felice di lavorare con persone motivate, competenti, animate dalla mia stessa passione. Posso senz’altro dire che Simplify, pur avendo ancora della strada da percorrere, è ad oggi un vero gioiellino, raro da trovare.

Secondo te cosa fa la differenza nel successo o insuccesso di un progetto?

Sia che si tratti di un progetto di vita sia che si tratti di un progetto aziendale, il suo successo è ad oggi molto poco scontato. Il perché è comprensibile. Non voglio minimamente accodarmi alla retorica dell’apprendimento per fallimenti successivi oggi tanto di moda, ma molto spesso per arrivare al successo, ossia all’obiettivo, sembra sia “necessario” passare per errori e fallimenti. È normale. Posto che io preferisco riuscire al primo tentativo, il fallimento è sempre da mettere in conto. Sta proprio qui, secondo me la chiave del successo di un progetto. È necessario dotarsi di tutti gli strumenti atti a sopportare eventuali deviazioni dal percorso previsto. Nel mondo complesso di oggi, pianificare è diventato difficile e, in molti ambiti, risponde più a un’esigenza psicologica del manager che ad una necessità di progetto. Mi spiego meglio. Non sto dicendo di vivere alla giornata, ma ciò che voglio dire è che pretendere di predefinire dettagliatamente ogni singolo passaggio che dovrà seguire la realizzazione del progetto è pura utopia. Questo vale per il progetto di realizzazione di un’infrastruttura come per un progetto di consulenza in azienda. Si cerca di farsi un’idea dello stato di fatto, si progetta l’intervento, ma la progettazione deve prevedere elementi di flessibilità, in modo tale da poter essere rimodulata in corsa, nel momento cioè in cui si acquisiranno ulteriori elementi di analisi e nel momento in cui si avrà la possibilità di osservare come effettivamente si starà dipanando la matassa-progetto. Vi faccio un esempio: tra gli ambiti della mia specializzazione vi è il controllo di gestione. Tra i diversi strumenti propri di questa disciplina, il processo di budgeting è uno di quelli maggiormente messi in discussione negli ultimi tempi, perché le capacità previsionali sono venute meno anche in settori considerati statici e maturi. Io sono a tutt’oggi un sostenitore del processo di budgeting in azienda, poco importa se si fatica a prevedere la domanda di mercato a 6 mesi. L’attività di pianificazione richiede una attenta fase di analisi e di osservazione di come funziona l’azienda, richiede di individuare quali sono le variabili in gioco e di come esse si comportano. Richiede inoltre di andare a individuare i punti deboli dell’organizzazione, cioè di quei punti che costituiscono una criticità in caso di risultati inferiori alle attese. È proprio su questi che è necessario andare a lavorare, anche creando delle ridondanze, se ritenuto necessario, a scapito dell’economicità e dell’efficienza immediata. Creare delle ridondanze è, ad esempio, un modo per favorire il successo di un progetto. Le ridondanze sono quella cosa che ci consentono di fronteggiare un imprevisto e di rimodulare un progetto in corsa. Ma l’atto di pianificare, come atto di conoscenza delle proprie possibilità, costituisce il giusto primo passo per qualunque progetto. Noi di Simplify crediamo molto in questo, tant’è che qualunque nostro approccio, che sia orientato alla persona, all’organizzazione o a un progetto, prevede una prima fase di assessment, ossia di una fase conoscitiva e di analisi del problema, spesso eseguita a più mani.

Con tante metodologie e soluzioni sul mercato, cosa ti ha spinto a voler entrare a far parte della Simplify Academy?

Premesso che, come accennato in precedenza, credo di aver dato un contributo importante alla nascita della Simplify Academy (me lo dico da solo), penso che quello evidenziato da questa domanda sia un elemento sostanziale del mio (e del nostro) modo di intendere la formazione e la consulenza. Noi di Simplify agiamo in ottica tailor made. Ogni azienda, ogni progetto, è a se stante, ed è quindi fondamentale confezionare un intervento che tenga conto delle specificità di quella ben precisa situazione. Esistono sul mercato tante società e professionisti che, anche in maniera talvolta mirabile, hanno creato modelli e sistemi interessanti e che si propongono al cliente offrendo soluzioni “chiavi in mano”. Qualunque sia la domanda, o l’esigenza, la risposta è sempre la stessa. Il mio sistema è migliore del tuo. Non intendo criticare l’operato di colleghi, ma non credo in questo stile di consulenza. La standardizzazione serve al consulente, non al cliente.Mentre il cliente ha bisogno di risposte personalizzate, tutta la creatività del consulente è tesa a far rientrare le domande del cliente all’interno del suo modello. Il mio metodo di lavoro prevede invece una conoscenza ad ampio spettro di modelli e di strumenti, che vengono di volta in volta applicati a seconda delle necessità, all’interno di un meta-modello generale che ci dà solo degli indirizzi di massima, prevedendo delle macrofasi, tra le quali vi è l’assessment iniziale di cui vi parlavo in precedenza. Non ho e non abbiamo la pretesa di inventare nulla, ma 200 e passa anni di storia del management ci mettono a disposizione un’infinità di strumenti e di modelli dai quali attingere, per configurare un intervento calibrato sulle reali necessità della situazione. Lo standard unico è nemico della complessitàdel mondo attuale. Standardizzare significa infatti ridurre le eccezioni, ma le eccezioni costituiscono l’essenza del mondo complesso di oggi e proprio nella loro trattazione risiede la chiave di successo del progetto. Standardizzare un intervento di consulenza o di formazione significa, per concludere, ridurre le probabilità di arrivare all’obiettivo.

Questo vuole quindi dire che il tuo approccio è diverso da quelli che si trovano sul mercato? Vuoi spiegare il perché ai nostri lettori?

Il mio approccio, e quello di Simplify, è basato sull’adattarsi alla situazione reale del caso da risolvere. L’ho spiegato prima. Non siamo gli unici a credere in questo approccio. Il modo particolare e unico in cui lo realizziamo nasce però dal particolare vissuto di ciascuno di noi e dal fatto che mettiamo in campo diverse professionalità e diverse esperienze nell’approccio al cliente. Un problema non è mai affrontato da un punto di vista unico. L’integrazione tra le due anime, Tools e People, consente di modellare la situazione su cui intervenire attraverso l’uso combinato di strumenti provenienti da aree disciplinari differenti, ma complementari.
Il mio approccio all’organizzazione aziendale si basa su un’analisi dei processi. Ritengo che questo dia modo di vedere l’azienda e la sua organizzazione da un punto di vista diverso, “think different”, come diceva qualcuno. Tutti noi siamo infatti abituati a pensare all’organizzazione strutturata in funzioni, ciascuna presieduta da una persona, che gestisce risorse. L’approccio per processi ribalta questa prospettiva e va ad analizzare le attività che vengono svolte dalle persone, con la rete di nessi causali e temporali, andando a definire il funzionamento effettivo dell’organizzazione. È uno sguardo neutro, ma che può rivelare molti aspetti critici e problematici invisibili, se non negli effetti che determinano, alla visione classica dell’organizzazione. Partire da una scomposizione per processi non significa sconfessare quanto detto precedentemente a proposito degli standard e dei modelli. Analizzare i processi aziendali non significa produrre procedure e mansionari, non è detto, almeno. Quello che faccio è evidenziare i processi aziendali e poi, a seconda della natura del problema, vado a declinare la mia analisi nella direzione richiesta per la risoluzione del problema. Se, ad esempio, si dovesse identificare una carenza nella spinta innovativa dell’azienda, una possibile soluzione potrebbe essere quella di snellire e di semplificare certi processi, in modo da favorire lo scambio di informazioni. Si procederebbe quindi verso una “sburocratizzazione” dell’organizzazione o di una parte di essa.
L’identificazione dei processi aziendali consente anche, ad esempio, di evidenziare dei punti di misurazione efficaci per monitorarne le prestazioni, al fine di progettare un sistema di controllo di gestione preciso e puntuale secondo i criteri dell’Activity Based Costing. Ma i processi aziendali sono governati da persone. Ecco che i miei colleghi di Simplify possono integrare le loro competenze più centrate sulla persona e sui comportamenti per completare e approfondire un’analisi così impostata. L’aspetto principale è creare nell’azienda la consapevolezza dei suoi processi. Penso che questo costituisca un enorme punto di forza del metodo di lavoro di Simplify.

L’Analisi organizzativa in 5 parole:

Processi, relazioni, persone, complessità, numeri.
Queste 5 parole sintetizzano il mio modo di vedere l’organizzazione aziendale. È un approccio che parte da basi rigorose, che può far ricorso ad analisi numeriche, basandosi sugli strumenti del controllo di gestione, ma che non trascura il fatto che le attività sono svolte da persone. Ho già in gran parte spiegato precedentemente cosa intendo per processi, non intendendo ripetermi, volevo spendere due parole su una in particolare della cinquina che ho indicato.
Parlo del concetto di complessità, mutuato dalla teoria della complessità, elaborata in ambito scientifico a partire dalla metà del secolo scorso e portatrice di una visione del mondo e dei fenomeni che lo attraversano che ben si addice alla mia. Complesso non è complicato. Un meccanismo meccanico, un motore o un orologio, possono essere complicati. Complesso è un aggettivo che si addice più a descrivere un insieme di caratteristiche proprie di un organismo vivente. Il corpo umano è un organismo complesso. Un’organizzazione aziendale è un’entità che ha molte delle caratteristiche che definiscono un sistema complesso. Non voglio addentrarmi ora in complicate definizioni e in elaborati concetti, ma penso che la visione dell’organizzazione aziendale come di un sistema complesso, con tutte le conseguenze che ne derivano, siano una chiave importante per un corretto approccio alla sua analisi. Vi basti per ora sapere che i concetti di ridondanza che richiamavo precedentemente, l’importanza dei processi aziendali, lo studio delle relazioni tra processi, tra risorse e tra persone e l’approccio multidisciplinare sono figli di questa visione dell’organizzazione aziendale ispirata alla teoria della complessità.
Per chi conosce la teoria della complessità sarà facile ricondurvi questi concetti. Chi non la conoscesse è invece invitato a rimanere sintonizzato sulle frequenze di Simplify, perché abbiamo numerose iniziative a riguardo.

Quali sono le skills necessarie per lavorare nel suo settore?

Ultimamente si sente un gran parlare di soft skills come di un requisito essenziale per affrontare oggi il mondo del lavoro. Non posso che essere d’accordo, altrimenti non lavorerei con Simplify. Questo vale per tutti i mestieri. Credo però che non sia possibile svolgere la professione di consulente senza: competenza, passione, divertimento. La competenza la intendo nell’accezione più comunque del termine. È necessario conoscere approfonditamente l’oggetto sul quale si lavora. Studiare, sperimentare, provare, talvolta sbagliare, migliorare, approfondire. Tutto passa attraverso l’acquisizione di un sempre maggiore livello di competenza nella propria materia. È importante avere una buona vocazione allo studio. Al giorno d’oggi è difficile inventare qualcosa, bisogna pertanto conoscere approfonditamente quello che è stato studiato e inventato prima di noi. Il segreto sta nell’usare gli strumenti quando servono, magari combinandoli insieme in maniera creativa. Ecco, ho dimenticato la creatività. Quello di consulente, anche se di formazione ingegneristica come me, è un mestiere creativo. La gente ignora qual è il profondo significato del termine creativo, attribuendolo a bizzarri personaggi dalle mani sporche di colore e dai vistosi occhiali. Beh, anche il consulente deve essere creativo, anche se talvolta indossa una cravatta.
La passione è ciò che ti fa andare avanti in un mestiere che comunque è duro, incerto e difficile. Il segreto è semplice: ti deve piacere. Per me è così. Il divertimento è una conseguenza della passione. Io al lavoro mi diverto, sì.

L’ultimo libro che hai letto (indipendentemente dall’affinità con le tue attività!)

Sono un assiduo lettore, sia per lavoro che per diletto. Ho sempre almeno un libro sul comodino o sulla scrivania. Come detto, il mestiere di consulente richiede aggiornamento e approfondimento continuo. In ambito professionale leggo molti libri di organizzazione aziendale e di controllo di gestione. Avendo esaurito o quasi la bibliografia in lingua italiana, sto leggendo, soprattutto per quanto riguarda temi legati all’organizzazione aziendale, molti testi americani. Cerco di andare alle fonti di alcune tecniche e metodologie, quando possibile, andando a leggere i classici dei grandi innovatori e pensatori, senza limitarmi ai manuali pratici. Apprezzo il taglio sempre molto pragmatico e denso di esempi che si trovano nelle edizioni oltreoceano. Sul tema dell’organizzazione aziendale vorrei invece citare in particolar modo un testo che ho letto qualche mese fa e che vorrei consigliare a chiunque si occupi, a vario titolo, di questo genere di tematiche, ma anche a chiunque abbia mansioni direttive in azienda. Si tratta della “Storia del pensiero organizzativo” di Giuseppe Bonazzi, edito da Franco Angeli, un testo di riferimento nel settore. Perché un libro di storia del pensiero organizzativo quando le aziende hanno bisogno di soluzioni concrete e pragmatiche? Penso che l’azione debba essere preceduta dal pensiero e ritengo necessario maturare un pensiero anche attraverso lo studio e l’osservazione di quanti hanno elaborato soluzioni originali nel susseguirsi delle fasi evolutive della storia dell’impresa moderna. La panoramica dei modelli organizzativi, a partire dai primi approcci efficientisti tayloristici fino ad arrivare alle più attuali teorie interpretative dell’organizzazione, ci offre un incredibilmente ricco armamentario per leggere e interpretare quanto avviene in una qualsiasi azienda oggi. In un’azienda vediamo spesso coesistere sottoinsiemi organizzativi che rispondono alle caratteristiche di diversi modelli interpretativi appartenenti a periodi diversi della storia del pensiero organizzativo. È importante saperli riconoscere e saperli maneggiare adeguatamente. Il testo del prof. Bonazzi, che ripercorre tutte le tappe del pensiero organizzativo, all’interno di una interessante cornice interpretativa di matrice sociologica, ci consente di fare questo. È un buon punto di partenza per comprendere molte delle dinamiche che quotidianamente si sviluppano attorno a noi.
Nell’ambito delle mie letture di svago, ho invece recentemente riscoperto un romanzo di qualche anno fa, dal quale Spielberg trasse un famoso film. Sto parlando di Jurassic Park, di Michael Crichton. Alterno letture di vario genere, non sono del tutto dedito ai romanzi di fantascienza o di avventura. Ho recuperato questo testo perché l’ho sorprendentemente trovato citato in un saggio che parlava della teoria della complessità, fatto che mi ha ricordato, cosa che avevo rimosso dalla visione del film, che l’intera saga partorita dalla fervida immaginazione dello scrittore americano è in qualche modo basata su tale affascinante teoria. Il personaggio del matematico Ian Malcolm si fa portavoce della teoria della complessità, andando a spiegare come il tentativo (fantascientifico) di ricostruire un ecosistema preistorico rappresentasse una minaccia per il mondo intero proprio per il fatto che gli effetti sarebbero stati imprevedibili, timore che poi si è manifestato nello sviluppo della trama del racconto. In quel caso lo scrittore ci presenta scenari di morte e distruzione. Senza arrivare a tal genere di conseguenze, l’imprevedibilità con i tradizionali mezzi razionali e deterministici propri anche del sistema azienda e del contesto in cui opera, rappresenta una sfida affascinante per il manager dei nostri tempi. Ed è un tipo di approccio che io e i miei colleghi di Simplify teniamo quando ci approcciamo alla risoluzione di un problema organizzativo.

Come ti vedi tra 5 anni?

Mi piacerebbe poter rispondere che tra 5 anni mi vedrei bene a dare direttive a fidati collaboratori da un campo di golf, ma temo che non sarà così. Quello che so per certo è che ci proverò e se non saranno 5 anni potranno essere anche 10, non importa. Non è desiderio di smettere di lavorare, anzi, penso che lavorerò ancora per molti anni. Solo che il mio obiettivo è quello di farlo diversamente da come lo faccio oggi. Spero di riuscire a raccogliere attorno a me tanti collaboratori bravi, preparati e animati dalla mia stessa passione, ai quali delegare piano piano tutti gli aspetti del mio lavoro. Penso che non interromperò mai invece la ricerca di soluzioni, di modelli, di metodologie. È la parte che mi appassiona di più. Adoro anche insegnare agli altri ciò che so e trasmettere loro le mie esperienze. Approfitto di questo spazio per lanciare pubblicamente una sorta di sfida con me stesso. A molti suonerà come un tentativo un po’ naif, ma, da buon sognatore, ho deciso di ignorare gli ostacoli della razionalità. Ho un sogno nel cassetto, che è quello di insegnare all’università. Ci voglio arrivare avendo seguito un percorso anomalo, non convenzionale, ma che mi consentirà di portare, oltre a un bagaglio di nozioni e di conoscenze, anche un valore aggiunto dato dall’esperienza sul campo.

Quale consiglio ti senti di dare a chi si sta affacciando al mondo del lavoro?

I consigli che mi sentirei di dare non sono dei veri e propri consigli, ma intendo offrire due constatazioni che sono il frutto della mia esperienza.
La prima è che, l’ho detto anche prima, per lavorare bene, occorre mettere passione in quello che si fa. Siccome la passione è una componente della propria personalità difficilmente manipolabile e indirizzabile, ciò che bisogna fare è puntare a svolgere un lavoro che si avvicini il più possibile alle proprie passioni o che ne contenga qualche elemento. Risulterà così più semplice eccellere, lo stress sarà più sopportabile e tutte le avversità, perché quelle ci saranno sempre, saranno affrontate con uno spirito positivo.
La seconda riflessione che vorrei presentare a chi sta cercando la propria strada professionale riguarda in qualche modo il concetto di imprevedibilità. A costo di essere noioso, ripropongo il concetto di complessità che ho prima citato. La vita, intesa come susseguirsi di esperienze, è un fenomeno talmente complesso, cioè governato da talmente tante variabili, che è impossibile prevederla ed è impossibile averne il controllo totale. È importante darsi degli obiettivi, avere dei sogni, ma spesso la strada per raggiungerli non è così lineare come si vorrebbe. Ci si scontra con tante contingenze, problematiche, situazioni, che non si limitano alla sfera professionale, ma che investono l’insieme più ampio chiamato vita, ragion per cui è più importante essere pronti a cogliere le opportunità anzichè arrovellarsi e immobilizzarsi nella ricerca della soluzione perfetta. È, secondo me, più utile e produttivo iniziare a fare esperienze, certo, che si avvicinino il più possibile a quelli che sono i nostri desideri, ma che non per forza devono da subito essere perfettamente allineate. Questo ci consente di non stare fermi, che è il male peggiore quando si cerca il miglioramento, e di accumulare esperienze che, per quanto apparentemente distanti dai nostri obiettivi, saranno comunque utili. Avremmo in questo modo di sviluppare personalità originali, al di fuori degli schemi, che ci consentiranno magari di differenziarci dai più e di spiccare, ad esempio, in un colloquio di lavoro o in una trattativa con un cliente. A questo proposito, ritengo estremamente importante curare e coltivare interessi personali, che possono riguardare progetti artistici, musicali, sociali, sportivi in modo da ampliare il bagaglio di conoscenze e di “complessificare” la nostra personalità. Questo ci darà sicuramente un plus sul mercato del lavoro, sia che siamo alla ricerca di un lavoro come dipendente che di un lavoro come consulente o libero professionista.

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